Cenni di Spagyria

La Spagyria, ambito del più vasto mondo dell’Alchimia, ancora oggi, a distanza di migliaia di anni, persevera nel praticare l’Arte della Terapia secondo i dettami della Tradizione, traendo dal suo insegnamento le conoscenze e gli strumenti necessari per affrontare tanto le sempre più difficili condizioni di vita quanto le insidiose “sirene” che a livello culturale vanificano l’attenzione di chi avverte l’insufficienza ed i limiti della mentalità attuale, prospettando l’abbandono acritico a sedicenti pratiche misteriosofiche che distraggono da un possibile e necessario percorso di consapevolezza.

Se, come sostenuto dai nostri antichi predecessori, nell’uomo si riscontra la più compiuta articolazione delle forze energetiche che informano ogni aspetto del Creato, ogni individualità di cui quest’ultimo è composto risulta costituita ed è descrivibile in ragione di una particolare configurazione archetipale, grazie alla quale sia l’ambito formale che funzionale di quella unità trova una propria ragione di essere.

Lo stesso termine “Spagyria”, oltre alla consueta spiegazione che ne fa risalire il significato etimologico a “spao” (solvere, estrarre) e “agheiro” (riunire, coagulare), può essere inteso come sintesi di “spao” e “ieros” (ciò che è sacro, divino), assumendo quindi il senso di arte di “estrarre i doni divini”.

Finalità di questo particolare approccio è quindi di sostenere la persona a liberare e a vivere pienamente le proprie potenzialità (..i doni divini), certamente inibite in caso di malattia ma anche limitate dalla presenze di stati interiori in cui confusione e indeterminazione ne impediscono una piena e gioiosa espressione.

Come testimonia il Papiro di Ebers, il più importante papiro medicale egizio risalente al 2000 a.C. circa, è infatti la “conoscenza del Cuore” del paziente da parte del terapeuta il “principio segreto dell’arte della medicina” e a questa indicazione si ispira la Spagyria, di cui questo reperto rappresenta la più antica testimonianza; in questa profonda visione dell’uomo si superano le divisioni e le differenze tra ambiti psichici, emotivi e corporei che lo caratterizzano, per rispettare l’unità alla sua natura e l’irripetibile originalità.

Ogni archetipo, ogni funzione energetica che ci mantiene in vita, non è infatti riferibile ad ambiti particolari e distinti della nostra costituzione ma si esprime su tutti i piani che ci contraddistinguono, dai più sottili a quelli in cui nella materia si manifesta concretamente.

Equilibrio e Armonia sono le condizioni che consentono, così in Cielo come in Terra, la relazione feconda tra le forze, che ne celebrano il rigoglioso vitalismo.

In rigorosa coerenza con questi assunti, lo spirito con cui lo Spagiro consiglia l’utilizzo di particolari rimedi è in funzione del sostegno che va garantito alle componenti debilitate della persona le quali, non essendo sufficientemente nutrite, determinano eccessi e prevaricazioni da parte di forze a loro complementari ma che, in uno stato di squilibrio, divengono contrastanti.

Relativamente ai rimedi utilizzati, in Spagyria, ogni “individuo di natura” viene valutato in ragione delle qualità di cui è frutto e conseguentemente testimonianza vivente, veicolo e riserva a cui attingere ogni qual volta si riterrà necessario utilizzare quelle particolari virtù.

Focalizzando l’attenzione al solo mondo vegetale, ogni pianta trova così una particolare distinzione sulla base della sua segnatura, che esprime tanto le funzionalità di cui è portatrice quanto le particolari modalità di comportamento che la contraddistinguono, sia in natura che utilizzata sotto forma di rimedio.

La segnatura indica quindi le virtù di quel vegetale, l’informazione che lo caratterizza, l’insegnamento che è in grado di dare a chi vorrà nutrirsene.

Su questi assunti si basa la Terapia Spagyrica, che infatti utilizza i rimedi ottenuti dalle piante in ragione delle forze-funzioni, degli archetipi che in esse sono contenuti e che vengono resi disponibili grazie ad una particolare lavorazione del vegetale, in grado di estrarne integralmente, di liberare le qualità di cui abbiamo parlato, rendendole così attive ed efficaci su ogni piano della persona, operando sia a livello fisico che sul “cielo interiore” della stessa.

Carlo Conti

C’era una volta…

C’era una volta un Re, verrebbe da dire, o una Regina, un Principe oppure una Principessa: proprio come iniziano quelle fiabe che risuonano di una fascinazione che ancora ci lascia stupiti, che sa richiamare l’attenzione e toccare il nostro cuore.

Davvero particolari queste storie, storie di donne e di uomini messi alla prova da un singolare destino di nobiltà e di gioia, di dedizione e d’amore, che però imperiosamente richiede la disponibilità a qualsiasi sacrificio e la ferma determinazione nel volerlo perseguire, ad integrarlo nel senso della propria esistenza.

La regalità ed il coraggio che rendono eroici i protagonisti e possibile la loro stessa salvezza, ci fa percepire la grandiosità e l’importanza del significato nascosto in quelle parole, che sanno d’antico e di presente insieme, come se l’eco del loro messaggio non fosse andato smarrito, ma rimasto invece per sempre con noi.

Non è bastato lo scorrere dei millenni ad offuscare questa luce di speranza e di conoscenza, e neppure i radicali cambiamenti della mentalità e della storia hanno minimamente inciso sulla nostra memoria più profonda: abbiamo ancora capacità, riusciamo ancora a percepire come parte fondante della natura umana la nobiltà delle sue origini e, che ci sostenga o ci opprima, l’impegno e la responsabilità che questo comporta.

Quel “c’era una volta” assume così il senso di ciò che è da tempo immemorabile, che da sempre ci accompagna, ci genera e ci nutre, ci dà vita e ci supera, per perpetuarsi memoria dell’intera umanità.

La regalità, allora, non riguarda né la prerogativa esclusiva di alcuni né la fortunosa sorte di altri ma semmai la possibile quanto necessaria dimensione di ogni uomo, potenzialmente in grado di garantire equità e giustizia al proprio reame, nella propria interiorità così come nell’ambiente di cui fa parte.

Dilatando il senso di questi insegnamenti, si comprende come ogni storia tramandata non sia tanto da intendersi come cronaca di accadimenti, trama inventata o veritiera di fatti altrui, quanto invece relativa alle fatiche interiori che ineluttabilmente contraddistinguono l’esistenza di ognuno.

Queste dinamiche, queste forme archetipali sono infatti la struttura del nostro sentire e del nostro pensare, le dimensioni che popolano la nostra anima ed in cui si articola il nostro dialogo interiore, l’aspetto essenziale della nostra particolarissima natura, proprio per questo ritenuta divina da nostri antichi antenati.

I testi sacri della nostra cultura, che superficialmente sono stati ridotti a mitologia, andrebbero quindi riletti e finalmente compresi nella loro ispirazione, nel loro voler essere consiglio e monito per ognuno, a ricordare la nobiltà del proprio sangue, a rispettare la complessa fragilità della propria esistenza, a celebrare la stessa vita nel segno della grandezza dell’uomo.

Gli dei e le loro narrazioni come metafora dei moti interiori, della fatica tutta umana di garantire loro una relazione armoniosa ed un fecondo equilibrio, così come della dannazione conseguente alla mancata comprensione di se stessi, che invece li trasforma in forze demoniache, fautrici di ogni conflittualità e fonte della più cupa disperazione.

Queste entità, queste forze immateriali che danno testimonianza di sé “così in alto come in basso”, sono infatti tutte rappresentate nel cielo interiore di ognuno di noi e, determinandone le condizioni, incidono direttamente sia sul nostro stato fisico che nelle dimensioni più sottili dell’anima e dello spirito, esprimendosi infine nella individuazione di desideri, nella determinare una volontà e nelle azioni che a questa conseguono.

In fondo di nient’altro si tratta se non di questo: dell’arte e quindi della capacità a comprendersi, per essere compresi ed infine, finalmente, comprendere.–––

Carlo Conti